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Storia e arte

Una devozione “stupenda e inaudita”

Una devozione “stupenda e inaudita”

Dal settembre 1594 gli uomini di Vico, animati e coordinati da Cesare Trombetta, hanno lavorato con sacrificio per costruire una piccola chiesetta attorno al pilone venerato. Ma nella primavera del 1595, a seguito di nuove guarigioni ottenute per intercessione della Vergine di Vico, la partecipazione popolare si afferma con un enorme affluenza di fedeli e una grande raccolta di elemosine, e risulta evidente che la piccola chiesa sia insufficiente per un movimento religioso tanto vasto.

Il vescovo Giovanni Antonio Castrucci agisce con la preoccupazione di far rispettare le norme conciliari. Elegge un procedimento informativo d’inchiesta per valutare i presunti casi di grazie e di guarigioni miracolose e, dopo il pronunciamento positivo della commissione istituita, incoraggia apertamente il movimento devozionale.

Il 27 giugno 1595, convinto che il luogo sacro potrà diventare il cuore pulsante della diocesi monregalese, firma un decreto per determinare formali procedure organizzative, contemporaneamente avvalla e favorisce le istanze del popolo.

Pertanto gli uomini di Vico, con l’aiuto della città di Mondovì e gli auspici del loro pastore, avviano i lavori per ampliare la piccola cappella in una chiesa a tre navate, intitolata alla Natività di Maria Santissima.

Il comune monregalese, di cui il villaggio di Vico fa parte come villa aggregata, provvede con tempestività anche all’ordine pubblico e a predisporre un imponente apparato di accoglienza. Quindi le comunità locali cooperano in armonia, sotto la guida e la sorveglianza del vescovo, per costruire un Santuario confacente alla fama acquisita, organizzare l’ospitalità delle moltitudini e garantire una gestione amministrativa limpida ed efficiente.

Nell’estate del 1595 la fama delle guarigioni ottenute per intercessione della gloriosa Madonna del pilone assume ulteriore risonanza.

Il passaparola dei pellegrini che ritornano ai paesi d’origine spinge altre comunità a muoversi e in questo modo la straordinaria reputazione sfonda limiti territoriali sempre più lontani e investe ogni ambito e classe sociale.

Ad agosto gli arrivi giornalieri a Vico sono migliaia e a settembre l’affluenza giunge a un culmine assolutamente inaspettato: è una realtà “stupenda e inaudita”, com’ebbe a definirla un osservatore contemporaneo, con numeri di presenze e introiti economici strabilianti.

Questa eccezionale e repentina fama induce il duca Carlo Emanuele I di Savoia, ad intervenire nell’autunno 1595.

Il principe si muove per acquisire il completo controllo della devozione e assoggettare con maggiore forza la ricca e vivace città di Mondovì, strategica per la politica di espansione sabauda nel Piemonte meridionale. Con questo fine non esita a cercare l’appoggio del pontefice: informando personalmente papa Clemente VIII e giustificando le proprie azioni come mosse preventive al dilagare dell’eresia protestante, propone di affidare la conduzione del luogo sacro ai monaci Cistercensi Foglianti e ai padri Gesuiti.

In quest’ottica dispone una serie di risoluzioni per sottrarlo al controllo del vescovo e della comunità cittadina ed il I° di aprile 1596, durante la sua prima visita alla Madonna di Vico, sceglie il disegno per un nuovo grandioso tempio a pianta ellittica.

Il duca ha la spregiudicatezza di individuare il progetto più originale e sontuoso ma non si cura di verificarne la fattibilità esecutiva né la sostenibilità economica; infatti spartisce l’enorme patrimonio delle elemosine accumulate fino a quel momento, destinandole in gran parte al monastero dei Cistercensi e alla penitenzieria dei Gesuiti, e lasciando una somma relativamente esigua per la costruzione della monumentale chiesa. Dal canto suo elargisce doni appariscenti e finanziamenti non sostanziali, comunque prelevati dall’erario statale, e promette sconti sulle tasse della città.

Assoggettando al suo potere il culto, che in brevissimo tempo ha raggiunto una diffusione di grande respiro riuscendo ad attrarre l’attenzione delle moltitudini ma anche di molti principi, Carlo Emanuele I riesce a ritagliarsi uno spazio di prim’ordine nella geografia dell’Europa mariana.

Nel 1598 in un atto testamentario egli elegge il Santuario come luogo della sua sepoltura – di quella della moglie Caterina, già deceduta nel 1597, e di alcuni suoi avi – ma quando l’asse religioso, diplomatico e familiare che lo lega alla Spagna e al papato si incrina, abbandonerà l’interesse per l’enorme cantiere.

Sopraggiungeranno anni cupi: nel Seicento le attività alla fabbrica saranno sporadiche, con disperati periodi di lunga inattività.

Solo il ritorno alla dimensione originaria come luogo di autentica fede animato dai referenti locali, vescovi e comunità, permetterà la prosecuzione e il completamento dell’enorme complesso monumentale nei secoli XVIII-XIX. Le ingenti risorse necessarie saranno attinte dalla beneficienza (elemosine, lasciti e donazioni private, doni di beni e materiali) e dalla generosità collettiva (finanziamenti comunali, pubbliche collette, opere di lavoro gratuito).